Oltre la malattia: la storia di Mimma Smaldone e la sua straordinaria lotta per la vita
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Abbiamo incontrato la famiglia di Maria Domenica Smaldone – Mimma, per tutti quelli che l’hanno amata – in un giorno di novembre. C’era un’atmosfera particolare, mentre suo fratello iniziava a raccontarci la sua storia: quella di una donna che, per oltre 50 anni, ha lottato contro una malattia che progressivamente l’ha privata di ogni autonomia fisica, senza però riuscire mai a toccarle l’anima. Attraverso le parole dei fratelli, Mimma ha così preso forma davanti a noi, nella sua tenacia e nella sua umanità, e in quel suo modo unico di affrontare ogni dolore senza mai perdere la voglia di vivere.
Ma andiamo con ordine.
Mimma è nata a Calvello, un piccolo paese della Basilicata, nel 1953. La sua infanzia è stata felice, serena, spensierata. La timidezza non le apparteneva; al contrario, era molto socievole e allegra. Trascorreva le giornate con i suoi amici tra le vie del paese, inventando giochi e fantasticando sul futuro. Nulla, a quel tempo, faceva presagire quello che sarebbe successo pochi anni dopo.
A 16 anni, con l’opportunità di una zia a Milano, Mimma e sua sorella si trasferirono nel capoluogo lombardo, spinte dal desiderio di costruirsi un futuro. Milano, a quell’epoca, era una città in fermento, e Mimma la viveva con occhi pieni di stupore e ambizione. Iniziò a lavorare per una compagnia assicurativa, ma sentiva di volere di più, e così due anni dopo decise di rimettersi a studiare, iscrivendosi a un istituto magistrale. Sembrava l’inizio di una nuova fase piena di promesse, ma in poco tempo qualcosa iniziò a cambiare.
Mimma cominciò a dimagrire e a sentire strani dolori alle gambe, una stanchezza persistente. Sua mamma, un po’ preoccupata, dava la colpa allo stress di quella frenetica vita milanese. Ma a gennaio del 1973 tutto precipitò: durante una lezione di ginnastica, sentì una fitta improvvisa al polpaccio, una specie di soffio di vento freddo. Nei giorni successivi si accorse che non riusciva più a mettersi in punta di piedi, la gamba sembrava perdere forza. Quello che inizialmente pareva uno stiramento si rivelò presto un problema ben più serio. Così, dopo varie visite e diagnosi incerte, Mimma fu ricoverata per la prima volta nell’allora padiglione Ponti presso Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Milano – Ospedale Maggiore Policlinico, diretto dalProf. Gildo Gastaldi – tra i più autorevoli padri dell’odierna neurologia.
Gli ospedali, allora, non erano come oggi: soffitti alti e scaloni imponenti suscitavano soggezione in chiunque varcasse la soglia. Il reparto era uno stanzone immenso, con tendine sottili a separare i pazienti. Ma ad avvolgerla, in quel luogo così austero, c’era tutto il calore di un’équipe di medici e infermieri.
Passarono i giorni, ma invece di migliorare, le sue condizioni peggioravano. Ogni giorno, una parte diversa del suo corpo si spegneva: prima la gamba sinistra, poi la destra, poi le braccia e infine la lingua. L’unico sollievo che i medici potevano offrirle era una massiccia dose di cortisone. La diagnosi iniziale fu quella di sindrome di Guillain-Barré, una malattia che colpisce il sistema nervoso periferico, ma dalla prognosi benigna. Presto avrebbe recuperato, dicevano i medici. Il suo corpo, però, non sembrava essere d’accordo con questa diagnosi. Le sue condizioni continuavano a peggiorare e alla fine dell’estate del ’73, Mimma era completamente paralizzata. L’unica cosa che la malattia sembrava non riuscire a toglierle era la sua forza di volontà. A piccoli passi, grazie a un’intensa fisioterapia, Mimma iniziò a recuperare e dopo tanti mesi tornò a casa. Anche se non era un ritorno alla normalità, per lei era una vittoria: poteva finalmente riappropriarsi di una vita che sembrava sfuggirle. Da questa esperienza così tremenda e inaspettata, Mimma tirò fuori una determinazione e una caparbietà che l’avrebbero accompagnata per il resto della sua vita. Si diplomò e iniziò a lavorare come impiegata in una segreteria scolastica, continuando a frequentare il Policlinico per fare fisioterapia e tenere a bada quel male che non voleva abbandonarla del tutto. Trascorsero così anni di miglioramento continuo e di nuove speranze. Si iscrisse a nuoto e a equitazione, e ritrovò la sua indipendenza.
I fratelli raccontano di quanto fosse diventata forte, ma anche severa: “Quando qualcuno di noi aveva un problema, Mimma lo riprendeva”. Ma non era durezza la sua, era realismo. Sapeva che la vita può essere spietata, ma cedere alla paura non è un’opzione.
Nel 1983, però, quando pensava di essersi lasciata il peggio alle spalle, la malattia riapparve, colpendo il braccio sinistro. I medici parlavano di nevrite, ma nessuno riusciva a dare una diagnosi definitiva. Era come se il suo corpo la sfidasse, costringendola ad affrontare un dolore nuovo, ogni volta. Intanto, la sua vita sentimentale ne risentiva: il suo fidanzato di allora, incapace forse di accettare le limitazioni che la malattia le imponeva, la lasciò. Per Mimma fu un colpo duro, ma anche questa volta seppe trovare la forza per andare avanti. Riprese a lavorare, comprò casa e continuò a vivere da sola.
Poi, nel 1999, la malattia si fece sentire più forte, con tremori e un nuovo peggioramento che la costrinse a un lungo ricovero. Fu allora che arrivò una diagnosi diversa: non si trattava di Guillain-Barré, ma di una rarissima variante della SMA, l’atrofia muscolare spinale, una grave patologia neurodegenerativa che colpisce il secondo motoneurone. Fu un momento di disperazione, ma ancora una volta Mimma reagì con coraggio, cercando soluzioni e adattandosi a ogni nuova sfida, senza mai lasciarsi sopraffare. Negli anni, accettò di abbandonare il lavoro, poi l’aiuto di badanti, una tracheotomia, il respiratore, fino ad arrivare all’uso di un comunicatore ottico per comunicare. Ogni nuovo passo indietro sembrava destinato a piegarla, ma Mimma trovava sempre un modo per andare avanti. “Ha sempre cercato di restare padrona della sua vita fino alla fine”, ci raccontano i suoi fratelli.
Era il 13 dicembre del 2023 quando Mimma se n’è andata. Ma in realtà, non se ne è mai veramente andata. La sua memoria e il suo esempio continuano a vivere nei cuori della sua famiglia e di chiunque l’abbia conosciuta. Ed è proprio per onorare la sua grande forza e la sua battaglia che i fratelli hanno deciso di donare un contributo al nostro “Centro Dino Ferrari”, per sostenere la ricerca sulla SMA.
Di numerose forme di malattie del secondo motoneurone, si sono riconosciute negli ultimi anni le origini genetiche. Per una di queste forme, che purtroppo Mimma non aveva, sono state sviluppate tre nuove terapie efficaci, alla cui realizzazione hanno contribuito i ricercatori e le ricercatrici del “Centro Dino Ferrari”. Per altre, invece, la ricerca é ancora in corso.
La speranza è che, presto, il lavoro dei nostri medici e ricercatori possa portare allo sviluppo di una cura, così da restituire un futuro a chi oggi lotta contro questa patologia.
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