Azzurro Gio: il sogno di Amedeo e James per la ricerca sulla SLA
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Una gara virtuale per ricordare l’amore reale per un papà
«Non fateci caso se durante questa intervista ogni tanto riderò, io sono fatto così».
Amedeo inizia così, con un sorriso che non maschera il dolore, ma lo attraversa e lo trasforma.
Accanto a lui c’è James, suo caro amico, complice di mille avventure e oggi anche di un progetto che vuole fare la differenza.
Incontriamo ragazzi come loro di rado. Non perché la solidarietà sia una questione di età, ma perché, di solito, chi si impegna in cause come questa ha qualche anno in più sulle spalle: genitori che hanno perso un figlio, uomini e donne che, con il tempo, hanno scelto di dedicare una parte della loro vita agli altri per costruire un domani migliore.
Amedeo e James hanno 23 e 24 anni, ma hanno ben chiaro chi sono e dove vogliono arrivare. Una determinazione che Amedeo ha preso tutta da suo padre, Giovanni, un uomo brillante che non si è mai fermato, nemmeno quando la malattia ha stravolto la sua vita.
Giovanni era nato nel 1964. Funzionario di banca, docente, appassionato di motori. Credeva nel sapere e nell’importanza della divulgazione, tanto che aveva creato una sua secret newsletter per aggiornare i colleghi su economia e finanza. Per lui la conoscenza era un valore assoluto, qualcosa da condividere. «Qualche anno fa si era anche iscritto a un master» racconta Amedeo. «Mi diceva sempre che ‘Studiare rende l’uomo libero’».
La SLA è entrata nella sua vita senza fare troppo rumore: un mal di schiena improvviso che non passava, un fastidio sordo e insistente alla gamba che continuava a tornare. All’inizio sembrava una sciatalgia, forse dovuta alla sedentarietà imposta dal suo lavoro e dal Covid, pensavano. Poi le prime visite, le infiltrazioni di cortisone, i dubbi.
La diagnosi è arrivata per esclusione. «Non esiste un test diagnostico per questa malattia» ci spiega Amedeo, che da quel momento ha iniziato a informarsi sempre di più.
“Degenerazione dei motoneuroni, SLA bulbare, SLA spinale…”.
Per tanti di noi sono solo parole, sigle difficili da decifrare, ma dietro si nasconde una patologia molto grave e progressiva, che colpisce il sistema nervoso.
La SLA, Sclerosi Laterale Amiotrofica, è una malattia neurodegenerativa che colpisce i motoneuroni, le cellule che trasmettono i segnali dal cervello ai muscoli.
Con il tempo, questi segnali si indeboliscono fino a scomparire, portando a una perdita progressiva della capacità di muoversi, parlare, deglutire e, infine, respirare. Esistono diverse forme di SLA, ma ciò che accomuna tutte le varianti è l’assenza di una cura risolutiva: ad oggi, non esiste un trattamento in grado di arrestarne il decorso. «All’inizio non volevo accettarlo», ammette Amedeo. «Mi sembrava impossibile rassegnarmi a non poter fare nulla».
Erano i mesi in cui si parlava molto di Neuralink, il progetto di Elon Musk sulle interfacce neurali. «Leggevo tutto quello che trovavo, cercavo di capire se potesse esserci una speranza, qualcosa di concreto. Poi, a un certo punto, ho dovuto fare i conti con la realtà».
Da giugno 2021, mese della diagnosi, la malattia ha infatti accelerato senza tregua. «A ottobre ha iniziato a usare la sedia a rotelle, a dicembre era allettato e a febbraio abbiamo dovuto prendergli il respiratore. Lì ho capito che quelli sarebbero stati gli ultimi mesi con babbo e mi sono preso una pausa dall’università».
«Ricordo quel periodo in modo un po’ annebbiato» continua Amedeo. Del resto, la memoria è selettiva: sfuma i dettagli più dolorosi, ma trattiene ciò che conta davvero.
E, infatti, quello che Amedeo ricorda bene è che, fino alla fine, Giovanni ha mantenuto il suo spirito. «Babbo non ha mai perso la sua ironia e la sua voglia di fare. Un giorno, quando era già allettato, ci disse che voleva fare un altro master universitario».
E la sera prima di andarsene, gli ha detto solo una cosa: «Tu devi stare tranquillo».
«Cioè, lui stava così e diceva a me di stare tranquillo» ride Amedeo.
Tranquillità. Una cosa che, quando si ha a che fare con una malattia del genere, sembra impossibile da raggiungere.
Eppure, Amedeo l’ha ritrovata in un progetto e in un’amicizia nata tanti anni prima, quasi per caso. «Era il primo giorno di scuola negli Stati Uniti, più precisamente ad Idaho. Avevo deciso di fare il terzo anno di liceo all’estero» spiega Amedeo.«A un certo punto sento un ragazzo parlare con l’insegnante in un inglese un po’ maccheronico» ride, «Ma sei italiano anche tu?».
L’altro ragazzo era James, anche lui lì per studiare. Da quel giorno sono diventati inseparabili.
Hanno condiviso un anno intenso, tra esperienze indimenticabili e interessi comuni, come il calcio. Tornati in Italia, hanno concluso il liceo nelle loro città, ma il destino li ha fatti ritrovare qualche anno dopo a Milano: Amedeo si è iscritto al Politecnico, facoltà di Ingegneria, mentre James ha scelto di studiare Comunicazione.
A unirli, oltre all’amicizia, una grande passione: i motori.
James, fin da piccolo, è stato pilota di moto, mentre Amedeo ha sempre sognato di diventare ingegnere di pista. Così, hanno deciso di unire le loro competenze e mettersi in gioco nel mondo dell’e-sport, il settore delle competizioni virtuali su simulatori di guida.
James in pista, Amedeo al muretto box. Un team perfetto, dove uno corre e l’altro studia ogni dettaglio tecnico: analizza i dati, elabora strategie, affina le prestazioni.
Quella che all’inizio era solo un’idea, piano piano inizia a prendere forma. Si iscrivono ai campionati ACI di simulazione di guida, partecipano a gare virtuali di alto livello. «Questo sistema allena sia il pilota sia l’ingegnere», spiegano. «A differenza delle piste reali, qui possiamo sbagliare e riprovare senza limiti. Se qualcosa va storto, aggiustiamo la strategia e torniamo in gara. Non ci sono costi proibitivi: possiamo sperimentare e perfezionare ogni dettaglio senza paura di rompere nulla».
Poi, un’idea ancora più grande: «Perché non creare una raccolta fondi continuativa e degli eventi di e-sport che tengano vivo il ricordo di babbo?»
Così è nato Azzurro Gio, un’iniziativa che unisce la loro passione per i motori a una causa benefica: sostenere la ricerca sulle malattie neurodegenerative. Il nome è un omaggio a Giovanni: l’azzurro era il suo colore preferito, “Gio” il soprannome con cui tutti lo conoscevano.
I fondi raccolti contribuiranno a sostenere un innovativo progetto diretto dalla Prof.ssa Stefania Cortidel nostro “Centro Dino Ferrari”, che punta a ricostruire in laboratorio la complessa rete di segnali tra cervello, midollo spinale e muscoli – la stessa che la SLA progressivamente distrugge. Attraverso l’uso di organoidi 3D, creati a partire da cellule di pazienti, i ricercatori potranno osservare i primi segnali della malattia e cercare nuove strategie per fermarla sul nascere.
«Vogliamo che la sua storia serva a qualcosa, che possa fare la differenza per chi sta affrontando una malattia neurodegenerativa come la SLA, oggi».
Così, due ragazzi di vent’anni si sono messi in gioco, dimostrando che l’età non è un limite quando c’è una causa in cui credere davvero.
Ora, tra le prossime iniziative c’è un evento che si svolgerà mercoledì 14 maggio dalle 21.00: una gara di e-sport con telecronaca e aggiornamenti in tempo reale su Twitch, per permettere a tutti di seguirla da casa e contribuire alla causa. Il montepremi, pari a 500€, verrà diviso tra i primi 6 classificati.