Pubblicato sulla rivista scientifica Nature Medicine uno studio internazionale, al quale ha partecipato Daniela Galimberti, ricercatrice del Centro Dino Ferrari, Università Statale di Milano – Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, che ha identificato diversi biomarcatori che si modificano nelle fasi precliniche della Demenza Frontotemporale dovuta a mutazioni in tre diversi geni.
Queste scoperte sono particolarmente importanti per avere a disposizione delle misure oggettive di progressione degli eventi patologici che sfociano poi nei sintomi conclamati ed intervenire con trattamenti preventivi personalizzati prima dell’insorgere della demenza.
La Demenza Frontotemporale è la prima causa di demenza nella popolazione con meno di 65 anni. A differenza della malattia di Alzheimer, la memoria è inizialmente preservata, mentre sono comuni i sintomi comportamentali (comportamenti non adeguati al contesto, disinibizione, impulsività e mancanza di empatia). Circa il 15% dei casi sono dovuti a mutazioni in tre diversi geni. Lo studio delle famiglie portatrici di mutazione è particolarmente interessante perché è possibile prevedere in anticipo lo sviluppo futuro di demenza. D’altra parte, è impossibile conoscere il momento esatto in cui si svilupperanno i sintomi in modo da poter partecipare a sperimentazioni cliniche con farmaci che prevengono la demenza (cosa che invece nella malattia di Alzheimer è possibile fare con i biomarcatori liquorali o di imaging).
Grazie a una collaborazione internazionale è stato possibile studiare le caratteristiche biologiche, radiologiche e neuropsicologiche di un’ampia coorte di soggetti (asintomatici e sintomatici) portatori di mutazioni causali, definendo un continuum di biomarcatori di prossimità allo sviluppo dei sintomi. L’utilizzo di queste misure permetterà in futuro di identificare coorti di soggetti a rischio di demenza che potranno partecipare a sperimentazioni cliniche con farmaci che modificano il decorso di malattia, specifici per ciascun difetto genetico, nell’ottica di una terapia personalizzata.
«L’identificazione di questi biomarcatori di prossimità allo sviluppo dei sintomi – spiega la Professoressa – potrebbe avere un impiego pratico come screening nella popolazione a rischio (familiari di pazienti portatori di mutazioni), per avviare soggetti presintomatici alla partecipazione a sperimentazioni cliniche preventive. Inoltre, la miglior comprensione dei meccanismi patogenetici alla base della malattia è importante anche per i casi di Demenza Frontotemporale ad eziologia non genetica (forme sporadiche), che potrebbero in futuro essere inclusi nelle sperimentazioni cliniche, nel tentativo di instaurare une terapia preventiva e non solo curativa».
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